Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Il concetto di innovazione è una delle parole-chiave del nostro tempo: un vero e proprio mantra, che popola ormai un amplissimo range di discorsi e rappresentazioni, spesso abusato o usato ben oltre il suo significato originario e letterale.
Nato nell'ambito specialistico delle ricerche tecnologiche e portato a massima dignità da realtà internazionali come i Lab del MIT, è presto passato a dominare l'ambito aziendale e sociale, fino a diventare un valore-passepartout, capace di evocare un immaginario specifico e articolato, fatto di visionarietà e creatività, ma anche di competenza, efficienza e concretezza.
In questo continuo passaggio, l'idea stessa di innovazione si fa sempre più trasversale. Non solo rispetto agli ambiti di utilizzo – tutto è potenzialmente passibile di innovazione: dalle policy alle dinamiche sociali – ma rispetto all'oggetto a cui tradizionalmente si applica: non più (solo) il prodotto o il processo, ma sempre più anche il metodo che sta a monte di qualsivoglia attività di progettazione o produzione, materiale o immateriale che sia.
E in questa nuova accezione, la funzione comunicativa diventa cruciale, come dimensione in grado di mettere in contatto stimoli, apporti, visioni, funzioni differenti, per distillarne qualcosa di radicalmente nuovo. Perché l'innovazione è prima di tutto “messa in comune” ed è dunque intrinsecamente ed essenzialmente comunicativa; purché anche la comunicazione si presti a essere re-ingegnerizzata, trasformandosi da risultato a facilitatore di un processo di "invenzione del nuovo", che sia genuinamente “partecipato” e condiviso da più versanti.