Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Nell’era della conoscenza, anche la scienza è diventata un valore; un asset come un altro, sottoposto agli stessi vincoli, primo tra tutti quello di essere controllato e protetto, a uso e consumo di chi intende farne uso e profitto.
Una logica che si ribalta quando si parla di comunità e di bene collettivo, per il quale, è evidente, la scienza “vale” tanto più quanto la si mette in grado di circolare nella società. Emerge allora un metro opposto, quello della comunicabilità: la capacità di essere condivisa, distribuita, fatta fruttare, secondo il principio neo-illuministico della sharing innovation.
Comunicare la scienza significa allora saper distinguere tra informazione e divulgazione, superando le idiosincrasie di entrambe. Non limitarsi a somministrare conoscenza, né a semplificarla, nel nome di una pura erudizione o curiosità, ma renderla indefinitamente trasferibile, liberandone così il potenziale effettivo.
Perché è qui che si misura il valore “pubblico” della conoscenza: negli effetti che riesce a creare e moltiplicare, in termini di azioni e retroazioni sociali, nella dimensione “minore” del quotidiano, grazie al motore formidabile della condivisione.