Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Intervistato su ICS Magzine 07 – dedicato al food&wine con contributi tra gli altri di Oscar Farinetti, Andrea Segré e Gianfranco Marrone, gli chef Carlo Cracco e Gianfranco Vissani e i wine experts Franco Maria Ricci e Tim Atkin – Carlo Petrini racconta con lucida e instancabile passione il progetto Slow Food e la sua visione, considerata una tra le più innovative, dello sviluppo agroalimentare. E del futuro del mondo.
Trent’anni fa le idee di Slow Food erano pionieristiche, quasi rivoluzionarie, mentre oggi sembrano conoscere un improvviso aumento di interesse. Cosa è cambiato?
Credo che la gente, soprattutto i giovani, abbiano sempre maggiore coscienza della crisi entropica in cui versa il nostro attuale modello di sviluppo, fondato sul disequilibrio tra fabbisogno energetico, produzione e consumo effettivo delle risorse. Le persone sono sempre più consapevoli del fatto che stiamo perdendo il nostro patrimonio di biodiversità, e che l’attuale sistema alimentare è insostenibile e porta enormi stravolgimenti ambientali e sociali. Qualche esempio? La dilagante infertilità dei suoli a causa dall'impressionante domanda idrica dell’alimentazione industriale, che porterà, in futuro, a fare la guerra per l'acqua, non per il petrolio; la graduale scomparsa delle specie deboli, lasciate morire in favore di quelle forti, e il rischio di catastrofe se queste dovessero sparire; la distruzione dei saperi artigianali, un tessuto culturale e sociale millenario. Soprattutto: l'endemico spreco. Se nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di viventi di fronte a una popolazione di “soli” 7, di cui ben un miliardo non ha di che mangiare, significa che abbiamo toccato il fondo. Occorre un salto di paradigma: dall’idea illimitata di crescita, che spinge a riprendere fiducia e tornare a consumare, alla riduzione dei consumi di risorse e dell'impatto tecnologico. Il punto è che se questo salto non avviene con coscienza, direi persino con gioia e armonia, siamo destinati a viverlo con grosse difficoltà individuali.
In che modo è possibile promuovere la decrescita come riequilibrio e cambiare l'attuale modello di sviluppo?
Tornando alla terra, ma non nel senso di un regresso, bensì con nuovi strumenti e nuove tutele, puntando su un’economia locale che sostituisca il mito della quantità con quello della qualità. Il concetto stesso di sostenibilità ha bisogno di essere maggiormente interiorizzato: molti italiani, ad esempio, riconducono “sostenibile” al verbo “sostenere”. Al contrario, il termine deriva dall’inglese sustain, che è il pedale del pianoforte che allunga il suono: non si tratta quindi di sopportare, ma di prolungare, portare avanti nel tempo i benefici dello sviluppo, rivedendo il concetto stesso: non più legato al mito dell’iperproduttivismo ma applicato a un rapporto armonico con natura, società, terra e persone, all’interazione felice in nome di un bene comune trasmissibile alle future generazioni.
La felicità, quindi, può entrare a pieno titolo tra i parametri per valutare lo sviluppo di una comunità?
Sì, e lo ha detto bene, qualche tempo fa, il presidente Uruguayano José Mujica, durante la Conferenza ONU 2012 sullo Sviluppo Sostenibile. Di fronte a tutti quei capi di Stato, intenti a perorare ancora una volta il modello della crescita a ogni costo, quest’uomo ha detto con un candore e una chiarezza che non lasciavano spazio a repliche: “Lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto, l’elementare. Precisamente”. Lasciando tutti di stucco.