Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Critici e fiduciosi. Entusiasti e catastrofisti. A cinquant’anni dalla pubblicazione di Apocalittici e integrati”, la fortunata formula introdotta da Umberto Eco negli anni '60 per descrivere gli opposti atteggiamenti di fronte alla cultura di massa ritrova intatta la propria efficacia di fronte al web e alle sue conseguenze. In particolare per quanto riguarda la memoria, individuale e collettiva, che rischia di restare schiacciata in una sorta di perpetua simultaneità.
È quanto emerge dalle parole dello stesso autore nell'intervista che segue, in uscita in versione integrale sul prossimo numero di ICS Magzine e realizzata in occasione del seminario celebrativo (vedi estratto video) che l'Università di Bologna ha voluto dedicare all'anniversario della prima edizione del volume.
Apocalittici e integrati: una dicotomia fortunata e quanto mai attuale. Sul web, dove si è spostato il confronto, gli integrati sembrano avere la meglio. Si tende infatti a considerare come intrinsecamente buoni i concetti di partecipazione e condivisione legati al digitale e ai social. Lei come giudica questa grande metafora della condivisione che sembra dominarci?
La funzione di ogni cultura è di essere una crescita collettiva. Nelle culture in cui c'è libertà di espressione, questa crescita si articola sempre con una critica continua della presa di parola. La cultura – meglio ancora – è un'alternanza continua tra la libera presa di parola e la critica di questa presa di parola. Questa dinamica coincide con un modello ideale di formazione, di scuola. Quello che sta accadendo col Web, invece, è che si sta idolatrando l'ideale della assoluta presa di parola, senza alcun controllo da parte degli altri. E le reazioni sono a loro volta delle prese di parola, che non portano ad alcun confronto critico. Rischia di venire a cadere, così, il presupposto fondamentale delle democrazia, ovvero l'assunzione che non tutto quello che si dice va bene. Chi teorizza il contrario, propugnando la pura presa di parola come unica forma di democrazia, ha di fatto rinunciato alla democrazia – e dunque alla cultura democratica – come critica delle opinioni.
Non a caso, uno degli atteggiamenti apocalittici rispetto al web è legato alle conseguenze che l’ambiente digitale potrà avere sulle capacità cognitive dei suoi “nativi”, memoria in primis. Come giudica questo atteggiamento? Siamo davvero immersi in una “simultaneità imperante”?
Il problema è che assistiamo a una crisi della memoria collettiva. Ne sono un esempio recente i quattro giovani concorrenti di un quiz televisivo che, interrogati su un episodio della vita di Mussolini, non sapevano in alcun modo in quale epoca collocarlo. Un divario importante rispetto alle generazioni, che magari non conoscevano la data di morte esatta di Napoleone, ma sapevano perlomeno in che periodo era avvenuta la spedizione di Garibaldi! Il punto però è che la memoria collettiva entra in crisi perché entra in crisi anche il gusto della memoria individuale. Chi non sa quando è morto Mussolini probabilmente non è interessato a rimemorare quello che ha fatto l'estate scorsa. E neppure ad ascoltare i ricordi dei propri genitori o dei nonni. Il rischio, così, è che nasca una generazione interessata a conoscere solo il presente.
Non crede però che Internet possa essere anche considerato uno sterminato serbatoio di memorie a disposizione di quei giovani che invece hanno voglia di riscoprire il passato?
Sì, proprio per non essere forzatamente apocalittici, possiamo certamente affermare che si può usare Internet per coltivare la memoria collettiva. Il problema, però, è il modo in cui si attinge da questo serbatoio. In ogni cultura c'è stata l'élite che aveva accesso alla memoria collettiva, dunque alla cultura e al sapere, e la massa che ne era esclusa. Oggi, abbiamo di nuovo una élite, che usa criticamente anche gli strumenti informatici, che coltiva la memoria e conosce il passato, e una massa che non lo fa, non perché è stata esclusa dall'accesso al sapere, ma perché gliene è stato dato troppo, e non organizzato. Quindi sarà massa ancora una volta soggetta, ma per eccesso di democrazia.