Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Vent’anni fa, con “Modernità in polvere”, formulò una teoria antropologica destinata a fare scuola, incentrata sull’idea di una realtà fatta di “flussi culturali globali”. Oggi Ariun Appadurai, antropologo statunitense di origine indiana, continua a elaborare visioni originali e acute, con uno sguardo transculturale mai banale non solo sul nostro presente, ma sempre più sul nostro futuro.
ICS lo ha incontrato a Milano, in occasione della sua lectio magistralis al termine del ciclo Future Ways of Living di Meet the media guru. Per parlare di Europa, diritti e modernità e scoprire che nulla, mai, torna davvero uguale a stesso.
Uno dei pilastri della sua teoria sui flussi globali era il concetto di etnorama e l’idea di un superamento del legame tipicamente moderno tra territorio e identità. Con l’attuale ritorno dei nazionalismi questo legame si sta rinforzando: siamo di fronte a una rinascita dell’idea di territorio?
Non c’è dubbio che stiamo sperimentando, non solo in Europa, una svolta culturale generale verso un pensiero di destra e xenofobico. Di fronte al radicalizzarsi dei flussi non solo di migranti e rifugiati, ma soprattutto del terrorismo, l’ansia sociale cresce e le persone tornano a cercare punti fermi in valori come il territorio, la famiglia, la nazione.
Ma come ci ha insegnato Levi-Strauss, nella realtà culturale, che è fatta di relazioni, quando qualcosa cambia, cambia anche tutto il resto. Così persino entità come il territorio possono essere riviste e rivitalizzate, ma mai ristabilite così com’erano, perché nel frattempo il terreno si è letteralmente mosso sotto i nostri piedi. È come le temp perdue di Proust: il tempo perduto è, appunto, perduto. Possiamo ricrearlo e raccontarne ancora la storia, ma la rivisitazione non sarà mai la stessa.
Una delle sfide più grandi dell’Europa sarà la gestione dei forti flussi migratori dall’esterno. In che modo i processi immaginativi influenzano questo fenomeno?
È evidente che l’immaginazione è una forza potentissima, per chi arriva come per chi accoglie. E bisogna impegnarsi a trovare un modo per dargli forma in modo costruttivo, affinché non si risolva, come già sta avvenendo, in sentimenti di odio, paura e rigetto. Ad esempio, non ha senso opporre in modo netto i migranti per ragioni economiche e i rifugiati per motivi umanitari. Tutti desiderano migliorare la propria vita. E migliorarla significa più sicurezza, più garanzie, ma anche un futuro migliore, per sé e per i propri figli.
D’altronde l’Europa stessa è stata per secoli una terra di libere migrazioni, sia interne che esterne. E mi pare un po’ ipocrita volere all’improvviso fermare la musica, far sedere tutti e sperare che chi non ha una sedia semplicemente scompaia. Perché questo non accadrà. È ora di riconoscere che immaginazione e aspirazione sono diritti di tutti, non solo di pochi.