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DAVID STARK: PRECURSORI DI MONDI

Le riflessioni di David Stark, direttore del Center on Organizational Innovation della Columbia University, sull'innovazione, dai modelli cognitivi che portano a riconoscerla alle dinamiche che conducono alla sua creazione. A partire da imprese, gruppi di cittadini e Istituzioni

Professore di Sociologia e Affari Internazionali alla Columbia University, David Stark è l'autore di “The Sense of Dissonance: Accounts of Worth in Economic Life”. Intervistato in occasione di una conferenza su creatività ed informatica all'Università di Bologna, parla della ricerca di nuovi modelli conoscitivi e della tensione originata dal disaccordo come fattori chiave per l'innovazione.

Difficile da scoprire ma riconoscibile e non sempre legata al successo: così lei descrive l'innovazione nel suo ultimo libro. Se dovesse darne una definizione generale, quale sarebbe?

È difficile definire chiaramente un fenomeno come l'innovazione, in particolar modo se si considera – appunto – che un'idea innovativa non è necessariamente valutata come di successo. In generale, è innovativo qualcosa che si discosta molto dal suo “modello standard”. Dalle imprese alla ricerca scientifica, la vera sfida per gli “aspiranti innovatori” è saper riconoscere l'innovazione in una forma ancora irriconoscibile per gli altri. Il passo successivo è far sì che anche le altre persone possano riconoscere l'innovazione come tale: la novità più genuina, utile, interessante e di valore. L'innovazione è sempre l'oggetto di una scoperta: d'altra parte, la natura sconosciuta di ciò che si indaga è un fattore connaturato alla definizione stessa di ricerca. Come riconoscere l'innovazione? Uno dei modi è mettere a frutto le categorie e i modelli di cognizione già esistenti. Un altro, sicuramente più radicale ed efficace, è rompere queste categorie ed operare una sorta di “ri-cognizione”. Tutta la mia ricerca riguarda i fattori sociali che potrebbero inibire questa capacità: quella, appunto, di “ri-conoscere” il mondo in modi inediti e innovativi, che siano condivisibili anche dalle altre persone.

Secondo lei, la tensione e le diversità giocano un ruolo chiave nei processi che generano innovazione. In che modo?

Nelle scienze sociali prevale l'idea che la condivisione sia garanzia di cooperazione e raggiungimento di risultati. La ricerca etnografica che ho condotto dimostra, al contrario, che la soluzione ideale per produrre innovazione è ben diversa: non condividere le stesse idee su cosa sia di valore ma saper tollerare la tensione eventualmente originata da queste differenze, di pensiero e di prospettiva, porta a soluzioni più produttive. Un esempio è rappresentato dalla ricerca che ho condotto sul jazz: il mio team ed io abbiamo analizzato 600.000 musicisti jazz, alcuni abituati a suonare insieme quotidianamente ed altri che si incontravano per la prima volta: abbiamo osservato che è da questo secondo gruppo di musicisti che arrivavano le soluzioni musicali più innovative. La tensione, combinata al saper coordinare i tempi, le attese e le aspettative di ognuno, può quindi rivelarsi molto produttiva. E questo è vero ad ogni livello. Nella società, ad esempio, si crea innovazione e valore, e quindi ricchezza, se convivono criteri multipli per stabilire cosa è meritevole: se c'è un solo criterio, ad esempio quello del mercato, il rischio è imporre un modello di ricchezza basato sul produrre e non sul fare cose di valore per le persone.

In Italia si parla spesso d'innovazione nel rapporto tra cittadini e istituzioni. I cittadini, in misura sempre maggiore, “interrogano” le istituzioni in merito al loro operato. Il settore pubblico, dal canto suo, “risponde” cercando una sorta di linguaggio condiviso, che fonda le differenze. È possibile invece che l'innovazione, anche in questo settore, possa emergere proprio dalla frizione?

Sì. Le dinamiche di tensione e frizione che si rilevano produttive in altri ambiti entrano in gioco anche nel rapporto tra cittadini e Istituzioni: ogni forma di partecipazione democratica è imperfetta. Bisogna tener conto delle differenze per favorire il dialogo: non basta applicare un modello di comunicazione di pura trasmissione, traslando un'idea dalle istituzioni alla comunità dei cittadini, ma occorre mantenere la distanza, non annullandola ma al contrario valorizzandola, sapendo individuare la soluzione più proficua per creare innovazione, rifuggendo dal disfattismo eventualmente generato da un'apparente inconciliabilità e dall'imperativo della rapidità temporale.

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