Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Viviamo in un mondo dove il confine tra spazio reale e virtuale è ormai inevitabilmente sfumato. La maggior parte delle nostre interazioni si svolge online, in luoghi che, per intensità di interazioni sociali e simboliche, sono ormai da considerarsi come spazi “abitati” e abitabili nel senso stretto del termine.
Eppure, come ci ha spiegato Arjun Appadurai, più gli spazi virtuali diventano reali, più le identità individuali e collettive sembrano cercare appiglio in entità fisiche e percepibili come il territorio. E in questo processo la città, da sempre collettore identitario di grande potenza, torna a occupare un ruolo centrale.
L’evoluzione del city branding riflette bene le dinamiche in gioco. I marchi “rappresentativi”, basati su elementi figurativi immediatamente leggibili – landmark, monumenti, tratti geografici caratteristici – sono sempre più rari. Crescono invece gli esempi di brand astratti e concettuali, fatti per sorprendere i sensi e, al tempo stesso, esprimere valori identitari più impalpabili, ma non per questo meno solidi e “reali”.
Così faceva del resto anche il “padre” di tutti i city brand, quell’I love NY ideato da Milton Glaser quarant’anni fa, che si conferma più che mai pionieristico e innovativo. Essenziale e pulito, sorprendentemente vicino, nel suo mix di verbale e visivo, allo stile infografico oggi così diffuso, eppure assolutamente “aperto” a mille interpretazioni e identità. Grazie alla capacità di raccontare, più che un luogo, un sentimento di appartenenza. Anche ben oltre i confini fisici della città.