Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Secondo l’ultimo rapporto di Eurobarometro, l’immagine dell’UE è come ferma al palo. Ormai da diversi anni, infatti, la percezione da parte dell’opinione pubblica resta fortemente legata ad aspetti pragmatici e funzionali, come la “libertà di viaggiare e studiare ovunque” (44%) e l’unità monetaria (35%), mentre l’aspetto identitario rimane secondario (importante per appena un 12%).
Si spiega così anche il sentiment prevalentemente negativo nei confronti dell’Unione, fortemente influenzato dai vincoli economici imposti negli ultimi anni. E tuttavia, come ci ha ricordato Michael Dobbs all’ultimo ICS, nella doppia veste di politico e storyteller, la questione europea era intesa in principio, dai suoi fondatori, come una questione di valori.
Non è che non si sia fatta strada su questo piano: è che si deve soprattutto a strumenti secondari, come il programma Erasmus o altri programmi transfrontalieri, che lavorano proprio su valori molto alti e astratti, e proprio per questo potenzialmente condivisibili. Il che mette la comunicazione in prima linea: il problema, infatti, sta nel trovare linguaggi e sistemi di traduzione reciproca tra i diversi Paesi coinvolti.
L'Europa quindi sa quello che dovrebbe fare – puntare su un diverso livello di percezione, più identitario e più culturale – ma non sa ancora come farlo. La risposta, credo, è da cercare nelle nuove generazioni, e non per una banale mossa retorica, ovvero per cui tutto ciò che è nuovo dovrebbe essere necessariamente migliore, ma per una ragione funzionale.
Sempre più, infatti, viviamo in un mondo di segni sincretici e multidimensionali, capaci di incrociare non solo linguaggi – verbali, visivi, musicali, cinetici – ma soprattutto logiche – informative, ludiche, valoriali. Si pensi solo al successo delle infografiche, format felicemente ibrido e proprio per questo efficace.
I giovani hanno l’imprinting semiotico necessario per sopravvivere nel nuovo habitat, grazie a un DNA comunicativo radicalmente nuovo, fatto di allenamento alla sintesi, alla comunicazione non riflettuta e immediata, esplorativa, ma anche di capacità di approfondimento e di orientamento attivo. Un cambiamento epocale, anzi evolutivo, a cui siamo tutti chiamati, se non vogliamo rimanere indietro.