Perfino nei bar da qualche tempo proprio tutti parlano di storytelling. Politica, società, economia: pare non ci sia ambito del vivere comune che non sia in cerca di “un nuovo racconto”, un nuovo modo di rappresentare la società e di rappresentarci al suo interno.

Siamo “immersi nelle storie”, per dirla con Frank Rose, autore di un fortunato libro su questo tema. Al racconto – all'arte di tessere storie – diamo il compito di definire la nostra identità, individuale e collettiva, convinti che nessuna immagine fissa, anche la più dettagliata, può valere il potere e l'efficacia di una bella storia.

L'antica pratica del narrare è diventata, insomma, una tecnica di comunicazione irrinunciabile e ancora una volta la tentazione è quella di rivolgersi alla maestra-pubblicità, per carpirne i segreti. Ma l'advertising non ha più nulla da insegnare in questo campo, anzi cerca di impratichiesi altrove, attingendo dall'universo delle storie condivise, chiedendo sempre più spesso alle singole persone – i singoli consumatori – di raccontare e raccontarsi. E agganciando il prodotto, come un rimorchio, a questo racconto.

A ben guardare, però, questo nuovo desiderio di storie ha un'altra natura, che con le logiche pubblicitarie non ha nulla a che fare. Il racconto identitario è un racconto intimamente sociale: un racconto di valori.

Non pare un caso, allora, che l'UE consacri uno dei suoi progetti più importanti alla ricerca di  “A New Narrative for Europe” e che individui nella cultura il terreno in cui muoversi. La sfida europea della comunicazione si basa infatti sulla forza di coesione insita nel suo patrimonio storico, culturale e intellettuale e quando l'identità vacilla, ritrovare nel proprio passato una nuova idea di futuro può essere il miglior racconto possibile.