Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
L'antropologia non è pura osservazione, diceva Cifford Geertz, uno dei più grandi etnografi del secolo passato. È qualcosa di più complesso: “un'interpretazione di interpretazioni”. Perché ogni cultura, sosteneva, è già di per sé portatrice di una specifica visione della realtà, di una propria weltanshauung fatta di linguaggi, usanze, ma soprattutto valori. Non basta osservare, quindi; occorre capire, mettersi in gioco in prima linea, consapevoli che il proprio sguardo non è neutrale.
Ma a cosa serve riflettere su questo sguardo oggi, in un mondo dove l'antropologia pare il residuo pittoresco di un passato un po' polveroso? Serve, prima di tutto, perché il metodo antropologico è tornato di attualità. Basti pensare alla netnografia, tecnica di interpretazione delle interazioni sul web, che cerca di colmare con l'immersività etnografica il gap tuttora aperto tra analisi quantitativa e qualitativa dell'universo social.
Ma non solo: se fare comunicazione oggi significa muoversi all'incrocio tra culture e linguaggi estremamente diversi, ricordarsi quanto è difficile comprendere “l'altro” – anche quando l'altro è, semplicemente, il proprio passato – può essere estremamente utile. Utile, come diceva Juri Lotman, altro grande pensatore del Novecento, a trovare la “lingua creola” tra comunità mai “così lontane, così vicine”.
Così la capacità dell'antropologia di raccontare storie sconosciute o dimenticate attraverso le immagini e le voci dei protagonisti diventa mezzo per rintracciare le regole fondamentali del (con)vivere e il ruolo essenziale che la comunicazione, intesa nel senso più ampio, riveste in questo processo di ritorno alle origini. Nella convinzione che guardare al nostro passato, attraverso le tracce che sopravvivono nel presente, sia il modo migliore per comprendere e costruire insieme il futuro.