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L'eccezione culturale. Ovvero come la comunicazione può fare la differenza

Cultura: un prodotto come un altro o un settore da tutelare? Il dibattito, sollevato lo scorso anno, è ancora aperto, ma una possibile soluzione viene proprio dalla comunicazione: perché, comunque la si veda, non c'è valore per la cultura se non nell'essere resa accessibile a tutti

Qualche tempo fa, l'elegante ministra francese per la cultura Aurelie Filippetti rilasciò una dichiarazione che in breve tempo riuscì a sollevare un piccolo terremoto dialettico nell'ambiente istituzionale europeo. Il prodotto culturale, sosteneva Filippetti, pacatamente ma risolutamente, non può e non deve essere soggetto alle medesime regole e logiche di mercato che valgono per ogni altra merce commercializzabile. Fuor di metafora, si trattava di mantenere la cultura e la sua industria al di fuori dell'ambito di pertinenza dei trattati commerciali di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, limitando le importazioni e mantenendo i programmi di sostegno statale al settore.

Nuova forma di protezionismo di fronte al dominio statunitense dell'entertainment oppure orgogliosa rivendicazione di una diversa visione, squisitamente europea, riguardo al ruolo e alla funzione sociale della cultura? Per la cronaca, la ministra francese e gli altri sostenitori dell'eccezione culturale l'hanno spuntata, incassando anche l'appoggio del Parlamento Europeo, ma la risposta a questa domanda resta sospesa.

Certo è che la cultura è ormai pienamente inserita all'interno delle teorie economiche più moderne come parametro di ricchezza a tutti gli effetti. E che dunque la comunicazione in questo settore può diventare un vero e proprio fattore di valorizzazione per prodotti, servizi e consumi che, come quelli culturali appunto, portano progresso e benessere forse meno visibili, ma certo più durevoli. Non solo: può aiutare a restituire all'Europa la capacità e la vocazione a tracciare una nuova via di sviluppo, che proprio nella cultura trova il suo cardine, anche in termini di puro marketing politico-sociale.

La cultura, insomma, come reale fattore di rilancio. Purché, beninteso, sia resa effettivamente fruibile a tutti. Perché, come ci ricorda Eco nella sua intervista, per produrre coscienza e memoria collettiva non basta rendere accessibile il sapere, ma occorre indirizzarlo e dargli forma: selezionarlo per il bene di tutti, evitando le trappole di un nuovo assoggettamento per eccesso digitale di democrazia.

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