Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, dice il vecchio adagio. Talmente vecchio che forse, al contrario di molta saggezza popolare, non è più completamente vero. Almeno non nella comunicazione. La réclame ha chiesto ad almeno tre generazioni di fidarsi di chi “più bianco non si può”, di chi “fa le cose per bene”, di chi non usava “un pennello grande, ma un grande pennello”. E tutti, o quasi, lo abbiamo fatto. Ma senza credere veramente a quel vigile che nascondeva il pennello nella divisa. Sembra quasi un paradosso: fidarsi di qualcuno ma sapere, in fondo, che non si può credere davvero in ciò che dice.
Oggi le cose sono cambiate: interattività, sharing, social network ci hanno abituati (o meglio ri-abituati) alla relazione e a un approccio più equilibrato col tema della fiducia. Chi si occupa di comunicazione non può non tenerne conto, tanto più se a comunicare non è il brand che parla al consumatore, ma l’ente pubblico che parla al cittadino. È qui soprattutto che riemerge con forza la distinzione tra credere e fidarsi: da un lato la proposta di un’interpretazione cristallizzata della realtà, che il destinatario può solo accettare o rifiutare, dall'altro un gioco complesso di interazione, scambio, costruzione di legami.
“I consumatori si fidano assai di più degli altri consumatori che non delle imprese” sostiene il guru del marketing Philip Kotler e, sebbene l’applicabilità di tali principi alla comunicazione pubblica sia ancora oggetto di discussione, è ormai certo che un rapporto di fiducia è tanto più stabile quanto più si basa sulla reciprocità. Ed è in questa rinnovata pratica di condivisione che la comunicazione pubblica può fare la differenza. Perché alle Istituzioni non serve creare storie, non serve costruire brand: è il cittadino, col suo vissuto, a generare narrazioni, da cui intercettare linguaggi per riscrivere il patto fiduciario tra Istituzioni e collettività. E magari anche quel vecchio adagio in una nuova forma: “fidarsi è meglio”.