Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Diversità è da sempre una parola delicata, da maneggiare con particolare cura e attenzione. E oggi, dopo i fatti terribili di Charlie Hebdo, lo è, se possibile, ancora di più. Tutto il mondo, all'indomani della strage, si interroga su quale sarà il destino di questo concetto e se lo spettacolo confortante delle diverse nazioni fianco a fianco per le strade di Parigi sarà solo l'eccezione del momento o la premessa di un nuovo corso.
Sicuramente nel caso dell'Europa, ancora bloccata tra spinte indipendentiste e velleità di federalismo, la questione assume un'importanza particolare, ben al di là del famigerato problema dello “scontro tra civiltà”, presunto o effettivo che sia. Riflettere su come rapportarsi alle differenze esterne può aiutare, in questo senso, a riconsiderare in modo autocritico il modo di gestire le differenze interne.
È un fatto, del resto, che le differenze culturali per l'Europa hanno un ruolo assolutamente positivo. La sola possibilità di compimento dell'Unione, anzi, sta proprio nella valorizzazione delle diversità, che andrebbero tutte incluse: mai negate, al massimo gestite e calibrate. Persino gli estremismi non sono, in ultima analisi, che iperboliche valorizzazioni di microculture e dunque per certi versi rappresentano un virus salutare all'interno del sistema, qualcosa in grado di dotarlo dei giusti anticorpi.
Il problema della comunicazione europea allora non è omogeneizzare o soffocare le diversità, ma sviluppare al di sopra delle culture di primo livello una cultura addizionale, più alta e visionaria, in grado di “tenere assieme” senza perdita o esclusione. Un'identità ulteriore: è questa la scommessa aperta del progetto europeo.