Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
La narrazione odierna della comunicazione si basa su pochi, chiari concetti fondativi: quello della condivisione, prima di tutto, il grande mito contemporaneo dello sharing – di risorse, di idee, di informazioni – e quello strettamente connesso del crowdsourcing, della possibilità di reperire ancora una volta risorse, idee, informazioni, in forma collettiva e distribuita, direttamente dalla fonte: dall'utente, consumatore o cittadino (o entrambi) a seconda dei casi.
Come tutti i miti del quotidiano, però, sono concetti da trattare con cautela, evitando di incamerarli con spirito passivo e acritico, sottoponendoli invece per quanto possibile a uno sguardo laterale, alla ricerca non solo dei potenziali effetti imprevisti, ma anche di possibili filiazioni ed evoluzioni.
Così, ad esempio, è evidente che in un ambiente dominato dall'intelligenza collettiva la trasparenza – intesa come capacità dell'informazione di essere pienamente disponibile, in senso sia funzionale che interpretativo, ovvero sia accessibile che comprensibile – non basta più. Non basta, cioè, per costruire un contratto sociale e civile adeguato all'era dello sharing.
Occorre invece agire per sollecitare una sistema di fiducia anch'esso collettivo, distribuito e generato “dal basso”. Passare dall'engagement come assunzione di impegno individuale a quello che potremmo definire crowdtrusting, la costruzione di un patto comunitario realmente partecipato, orizzontale e condiviso.
Ne deriva una diversa vocazione delle istituzioni, ma anche una nuova forma di responsabilità: non più semplicemente proporre valori e principi al corpo sociale, ma metterlo in condizione di costruirli autonomamente, con l'aiuto, mai invadente ma sempre garante, di un'istituzione che sappia parlare, finalmente, lo stesso linguaggio del suo referente elettivo: il cittadino dell'era digitale.