Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Scrittore di racconti, fumetti e romanzi. Ma anche sceneggiatore e regista di produzioni televisive e cinematografiche. È una figura eclettica quella di Etgar Keret, la cui storia personale si intreccia con le vicende dell’olocausto e del conflitto arabo-israeliano. E proprio dalla cultura semitica e dalla tradizione yiddish, culla di narratori orali, Keret raccoglie un’eredità linguistica fatta di estrema versatilità: «Il motore del mio racconto – afferma – non è il desiderio di confezionare uno strumento narrativo specifico, ma quello di trasformare un’emozione in una storia, che sia un romanzo o un film per bambini: in questo, sento una profonda connessione con il patrimonio letterario ebraico».
Le storie, per Keret, sono quindi delle “emozioni raccontate”, ma anche provate ed esperite in prima persona: «Leggere una storia – dichiara – è la cosa più vicina al sentire cosa si prova ad essere un’altra persona. Se vai in palestra, fai esercizi per allenare la tua massa muscolare, se leggi un libro eserciti la tua “massa di empatia”. Non solo: leggendo, puoi essere qualcun altro senza correrne i rischi. Puoi sentire, ad esempio, come si vive in un quartiere povero senza davvero essere mai in pericolo, e questo ci aiuta a guardare la realtà da punti di vista diversi».
Rispetto al suo ultimo romanzo, Sette anni di felicità, in cui Keret racconta i fatti più drammatici della sua vita senza mai perdere l’ironia, lo scrittore commenta: «Al pathos e all’autocommiserazione preferisco lo humor: con l’ironia è più facile comunicare e prendere le giuste proporzioni. Lo humor – prosegue – è anche un efficace strumento di dialogo e di critica: se fai ridere qualcuno e allo stesso tempo lo critichi, non lo allontani come se gli urlassi addosso ma lo avvicini e gli dici “ti ho dato qualcosa, ti ho fatto ridere e ciò che devi darmi in cambio è ripensare a quello che stai facendo”».