Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
«Una giornata molto interessante, grazie soprattutto agli insegnamenti appresi dagli interventi di Harper Reed, la mente hi-tech della campagna comunicativa di Obama, e di Jung Chang, la famosa scrittrice cinese». Così Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, commenta l’edizione 2013 dell’International Communication Summit di Roma, alla quale ha partecipato con un’articolata riflessione sul tema della comunicazione religiosa nell’era dei social media.
Nominato nel 2007 da Papa Benedetto XVI, Tighe ha sottolineato l’importanza della presenza della chiesa sulle nuove piattaforme di comunicazione e ha condiviso con il pubblico del summit le sue idee sulla trasparenza come conditio sine qua non per l’onestà della comunità e dei singoli individui.
Presupposto del suo discorso è che la vera comunicazione si riveste degli escamotages tecnologici per continuare ad affermare la sua intima identità narrativa, calandosi nelle storie raccontate dai singoli individui. «Se sono cattolico e se sono credente – dice – non posso che parlare della mia fede e condividere la speranza che mi aiuta tanto nella vita». L’utilità del nuovo mezzo di comunicazione si lega quindi secondo Tighe alla sincerità dell’atto di condivisione della fede.
Quello che per le istituzioni è un dovere di trasparenza diventa così, a livello individuale, un imperativo di autenticità dei singoli. Se essere trasparenti per un ente religioso come il Vaticano significa «essere onesti, non nascondere la realtà di chi siamo, non ingannare la gente», essere autentici, per chi frequenta l’universo dei social media, significa condividere non solo gli stessi interessi, ma la stessa profonda vocazione a divulgare la fede e lo spirito di comunità su cui la Chiesa da sempre si fonda.