Un tempo, l’Italia è stata la capitale Europea del design.
Originale interprete del web contemporaneo, Andrew Keen è uno dei critici più seguiti e discussi del fenomeno dei social media, verso cui nutre posizioni ambivalenti. Intervistato alla presentazione del suo ultimo libro, il 2 maggio a Bologna, Keen parla di social media e giornalismo, e della trasparenza e del condividere come nuove ideologie.
In che modo la grande diffusione degli user generated content, ora veicolati anche tramite social media, interagisce con il giornalismo professionale?
Molti social media si nutrono di giornalismo tradizionale, che quindi continua ad avere un ruolo di primo piano nell’attuale panorama mediatico. È vero che grazie ai social media è possibile avere informazioni in tempo reale, ma spesso queste informazioni sono sovradimensionate e tendono ad essere sensazionali: riflettono percezioni soggettive e non offrono analisi puntuali della realtà. Inoltre, non subiscono alcun iter di controllo e verifica delle fonti. Credo che la figura del giornalista professionista sia imprescindibile, mentre non lo è più quella dei grandi editori, che hanno perso il monopolio dell’informazione. Credo quindi che per i professionisti si stiano aprendo nuove opportunità anche al di fuori delle grandi compagnie editoriali.
I social media favoriscono la trasparenza? Qual è la sua visione in merito?
La trasparenza è a mio parere un'ideologia della nuova élite digitale, ma l’ironia è che tutte le persone che meglio la conoscono sono loro stesse opache: i vertici di Google, di Facebook, personaggi come Julian Assange. La trasparenza sembra quindi necessariamente andare a braccetto con l’opacità. Non che io sia contrario all’opacità, credo anzi che il riserbo sia una cosa buona per gli individui. Come d’altronde lo è per i governi: è giusto che i governi abbiano un certo livello di trasparenza, perché i cittadini possano capire come lavorano, e come e perché spendono i loro soldi, ma hanno tuttavia bisogno di mantenere un minimo di riserbo su questioni relative, ad esempio, alla sicurezza e al lavoro della polizia. Inoltre, a mio parere, la trasparenza delle Istituzioni amministrative implica un impegno anche da parte dei cittadini, che devono acquisire la consapevolezza che creare network digitali non è accedere a tutta la “verità” sui governi: non è realistico poterlo pensare. La verità è complessa e ha bisogno di essere interpretata, non basta una banca dati accessibile.
Condividere è il modo in cui creiamo la nostra reputazione online. Come giudica questo processo?
L’idea del condividere è molto potente ora, nella Silicon Valley in particolare. Io credo che questa idea non sia né buona, né cattiva in assoluto: condividere è utile nel momento in cui gli utenti possono scambiarsi informazioni in merito ai prodotti che acquistano o ai progetti di natura sociale a cui sono interessati. Sono tuttavia preoccupato dall’esposizione online legata al condividere informazioni della propria sfera privata e credo che condividere (sacrificando, inevitabilmente, parte della propria privacy per raggiungere un buon social rate) sia diventata la scelta politicamente corretta, quasi un principio e un imperativo del ventunesimo secolo digitale. Uno dei rischi di questo fenomeno è che le persone possano arrivare a “sentirsi in dovere” di condividere le proprie informazioni, anche quando non vogliono.